Tutti i Santi

Tutti i Santi

Tue, 25 Oct 22 Lectio Divina - Year C

È significativo che nella celebrazione liturgica della Solennità di Tutti i Santi sia proposto questo brano evangelico. Infatti con il discorso della montagna siamo al cuore del cristianesimo: è la «magna charta» del cristiano, che addita un cammino aperto per tutti. Questo testo ha cambiato la storia di una lunga schiera di martiri e di santi, facendo toccare con mano la cifra del nostro essere credenti. Sono pagine che sfiorano direttamente le corde dell’anima. Questo discorso lo troviamo anche il Luca (6,20-49), però in un contesto, ambientazione e prospettiva, che non hanno lo stesso impatto comunicativo. Con l’evangelista Matteo ci troviamo di fronte ad un discorso programmatico iniziale, altamente solenne.

In uno sguardo d’insieme, la prima cosa che colpisce è il ritmo cadenzato attraverso il quale si articola il discorso. È una costruzione molto semplice, lineare, quasi lapidaria. È strutturato secondo uno schema che si ripete: una prima affermazione che contiene la proclamazione della beatitudine di alcune categorie di persone e una seconda che dà la motivazione della beatitudine. In questo modo di procedere viene subito evidenziata la dimensione positiva, perché all’inizio troviamo soltanto la beatitudine e le categorie che si dicono beate. Il clima che si crea è particolare: ricorda la creazione (Genesi 1-2) in cui come sfondo troviamo una parola di benedizione. Tutte le beatitudini sono in terza persona, eccetto i vv. 11-12. A livello comunicativo la terza persona ha una valenza più universale. Infatti raggiunge l’essere umano di ogni tempo e luogo. Invece la seconda persona è più diretta e si rivolge a chi sta di fronte, al lettore, creando una interazione immediata e più efficace.

v.1: In questo versetto abbiamo il susseguirsi di importanti azioni che hanno Gesù come protagonista: è il rabbì che «vede», «sale» e «si siede». Sono azioni significative, tuttavia l’attenzione si concentra sul «salire» di Gesù sul monte: qui il richiamo all’evento del monte Sinai è automatico (Esodo 24). Tuttavia Gesù non va sul monte per ricevere la Legge: Lui la interpreta. Gesù sale sul monte, abbracciando con lo sguardo le folle che vengono a Lui. La folla ha una valenza positiva, perché vi si trovano potenziali discepoli: vi sono uomini e donne che possono mettersi alla sequela di Gesù.

v.3: Nella prima beatitudine si parla dei «poveri in spirito». È una categoria riassuntiva, che ingloba tutte le altre categorie di persone: gli afflitti, i miti, i perseguitati. Riferendoci al significato etimologico, il termine deriva dal greco «ptōsso» (πτωσσω) e significa incurvarsi, incurvare, piegare. Indica colui che è piegato; è curvo sotto un peso; dipende da altri, non è autonomo. Il vocabolo ha conosciuto uno sviluppo semantico nella sua comprensione, che ha portato ad una spiritualizzazione del termine: da stato di povertà fisica e sociale è finito per indicare la mitezza, l’umiltà: i poveri in spirito sono coloro che affidano la loro causa a Dio. Trovandosi in una condizione di povertà, di debolezza, non si rassegnano, ma hanno la forza di credere.

Secondo membro: «Di essi è il Regno di Dio». È un presente, non si tratta di una promessa futura: la visibilità dell’azione salvifica di Dio è in queste categorie. È un Regno nascosto ai sapienti… è tra i poveri (Matteo 11). È in questa categorie di persone che Dio afferma la sua potenza.

Di fronte a questa prima beatitudine è bene liberare il campo da facili fraintendimenti: non si dice che l’essere poveri è beatitudine. Qui non viene beatificata una situazione di limite, economico o sociale, né si vuole beatificare uno stato di distacco interiore che permette di vivere nell’agiatezza: il testo non dice questo, ma piuttosto sottolinea che l’agire salvifico di Dio si manifesta in queste situazioni. I poveri sono coloro che vivono in una situazione di limite e nonostante ciò si rivolgono a Dio, che può salvare. Sperano e credono che Dio interviene, perché non li abbandona: scelgono di porre la loro fiducia in Dio.

v.4: La seconda beatitudine si riferisce a coloro che piangono, che vivono nella tristezza, che sono in lutto. Il paradosso: vengono detti beati coloro che piangono, che vivono nell’afflizione. Siamo abituati ad interpretare l’afflizione con categorie sociologiche, ma nella comprensione biblica gli afflitti sono coloro che piangono perché, guardando la realtà, vedono lo scarto tra ciò che si presenta e ciò che è promesso. L’afflizione dev’essere compresa nel contesto della storia della salvezza: è un dolore storico-salvifico, perché la salvezza di Dio è smentita dalla realtà. Gli afflitti si rendono contro che la promessa di Dio non è adempiuta. Vedono lo scarto tra la realtà presente e l’assenza del Regno (cf. Isaia 61,1-2). Non si tratta di un dolore intimistico. Nella Bibbia il dolore più profondo è determinato dall’assenza di Dio nella realtà circostante: le ingiustizie e le oppressioni che si vedono diventano dolore sofferto sulla propria pelle.

Il secondo membro contiene un verbo al futuro. Esso apre alla dimensione escatologica del pieno compimento e della consolazione. Se da una parte c’è quindi un aspetto di attesa del «mondo nuovo e di cieli nuovi» (cf. Apocalisse 21), dall’altra parte c’è un aspetto di presente, che è determinato da coloro che soffrono nella consapevolezza che il dolore non è la parola definitiva. Il futuro richiama alla responsabilità dell’uomo, al suo impegno perché il presente diventi spazio della presenza di Dio.

v.5: Terza beatitudine. In Matteo ricorre tre volte il termine «mite»: (Matteo 5,5; 11,29; 21,5). La mitezza è una bella qualità, cara alla teologia di Matteo. C’è una relazione d’interscambiabilità tra la beatitudine dei miti e la beatitudine dei poveri. Contrari ai miti sono gli arroganti: sono gli uomini che hanno l’orgoglio come collana e la violenza come vestito, gli uomini che non rispettano né Dio né l’uomo (cf. Salmo 73, 5-6.9).
La beatitudine si riferisce a coloro che agiscono secondo il progetto di Dio. Di questa sottomissione a Dio ne hanno fatto il criterio del «giusto rapporto» anche verso l’uomo, che si traduce in un atteggiamento di rispetto e di benevolenza: la fiducia in Dio motiva la fiducia verso l’uomo; la benevolenza di Dio diventa misura del comportamento umano.

Il secondo membro parla del possesso della terra come eredità. Qui l’aggancio è da trovarsi con la promessa che Dio ha fatto ad Abramo (Genesi 13,15; 18). È una promessa di benedizione: la terra è un bene che si può toccare, abitare; rappresenta la sicurezza di avere una casa. Anche questo concetto conosce un’evoluzione. Spiritualizzandosi, finisce per diventare un simbolo escatologico, alludendo all’insieme dei beni futuri, promessi a coloro che vivono un giusto rapporto con Dio e con gli uomini. Questa promessa futura diventa per l’uomo un impegno a dare vita a rapporti di mitezza.

v.6: Nella quarta benedizione non è solamente indicata una categoria, ma troviamo anche una specificazione: «affamati e assetati di giustizia». Qui la giustizia non ha una connotazione primariamente sociale. Infatti l’evangelista Matteo si riferisce alla concezione biblica della giustizia. Essa definisce l’aspetto relazionale: la relazione verso Dio e verso gli uomini. La beatitudine si riferisce quindi a coloro che con tutte le loro forze cercano la verità delle relazioni con Dio e gli uomini. Questa relazione di figliolanza e di amicizia verso Dio diventa per loro il modello di riferimento nei rapporti all’interno della comunità (cf. Matteo 18).

Secondo membro. Fa da sfondo all’affermazione «saranno saziati» il Salmo 107. La stessa categoria la troviamo in Luca 1,53: «Ha ricolmato di beni…». La sazietà diventa simbolo della pienezza escatologica, che si apre per coloro che vivono questa dimensione della giustizia: Dio stesso s’impegna a soddisfare la promessa.

v.7: Quinta beatitudine. La misericordia è un termine caro alla teologia biblica. Non è da comprendere solamente come dimensione affettiva, ma le è connaturale anche un comportamento effettivo. La misericordia si realizza nell’agire storico-salvifico, cioè nel «fare misericordia». Per questo nella Sacra Scrittura l’aggettivo «misericordioso» è quasi sempre un attributo proprio di Dio. È interessante notare che solamente nell’evangelista Matteo troviamo riportata la citazione del profeta Osea «Voglio misericordia e non sacrificio» (6,6) in due contesti diversi: nel caso della chiamata di Levi (Matteo 9); nell’episodio in cui i discepoli spigolano (Matteo 12).

Secondo membro: «perché ad essi verrà fatta misericordia». Qui si presenta un problema teologico, che si ripropone anche per il Padre nostro in riferimento al «rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Sappiamo che la misericordia è una proprietà di Dio, come sappiamo che il perdono che Dio offre è sempre gratuito. In entrambi i casi non ci troviamo di fronte ad una condizione, ma ad una richiesta, ad un appello. Infatti partecipiamo al perdono di Dio quando noi perdoniamo ai fratelli: la consapevolezza che tutti siamo debitori insolvibili verso Dio (cf. Matteo 18), perché non possiamo risarcire Dio per il male che compiamo, deve motivarci a perdonare il fratello. Allo stesso modo, stiamo davanti a Dio come persone che hanno bisogno della misericordia del Padre: il nostro compito è donarci reciprocamente quella misericordia di cui siamo stati oggetto.

v.8: Sesta beatitudine: i «puri di cuore». Il cuore nel linguaggio biblico è la sede delle decisioni umane, è il centro vitale della persona (cf. Detuteronomio 4,20). La purezza di cuore richiama al salmo «Chi salirà il monte del Signore? L’uomo innocente di mani e di cuore… non giura con il proposito d’inganno» (Salmo 24,3-4). La purezza è riferita alle relazioni: s’intende la corrispondenza tra ciò che si sente interiormente e ciò che si fa effettivamente. La purezza evita l’ipocrisia, cioè lo scollamento tra ciò che è occulto, ma che conosce Dio, e ciò che è palese: nella relazione che si stabilisce con Dio e gli uomini si vive la perfetta conformità tra la decisione del cuore e l’atteggiamento, che risulta dunque vero.

Secondo membro. «Vedranno Dio»: è la piena comunione. A chi pone in essere una corrispondenza tra la decisione del cuore e l’azione, sarà data la piena comunione. «Il volto di Dio»: siamo nella dimensione escatologica, dove si realizzerà la piena comunione nella beatitudine.

v.9: Settima beatitudine: «coloro che operano la pace». Troviamo questo termine solo tre volte in tutta la Bibbia: Proverbi 10,10; Colossesi 1,20; Matteo 5,9. Il termine ebraico di pace è «shalom»: è il bene per eccellenza. È un termine denso di significato: indica l’integrità fisica, spirituale, la pienezza della vita, della gioia. Rimanda all’attesa messianica: il Messia avrebbe dato «pace» (cf. Isaia 9,5-6). Gli operatori di pace sono coloro che operano perché gli uomini abbiano shalom: giustizia, vita in tutta la pienezza, integrità fisica e morale.

Secondo membro: «saranno chiamati figli di Dio». Possiamo leggere l’esortazione ad essere imitatori di Dio, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (cf. Matteo 5,38). Dio è Colui che opera la pace e dona all’uomo la pienezza di vita; essere «figli di Dio» significa operare perché l’uomo abbia pace.

v.10: Ottava beatitudine. Viene data una grande rilevanza al tema della persecuzione, che ritroviamo anche nella nona beatitudine. È un tema che appartiene a tutta la letteratura biblica, specie profetica: il profeta non cerca la persecuzione, ma si imbatte in essa, a motivo della sua comprensione della realtà, in quanto testimonia un ordine diverso, voluto da Dio. Matteo lo riprende, affermando che la persecuzione non è qualcosa di accessorio, ma costitutivo della fede. La persecuzione viene definita come uno stato che appartiene alla vita dei discepoli; una costante. Essere discepoli vuol dire essere perseguitati a motivo della giustizia, cioè della giusta relazione con Dio e gli uomini di cui ci si fa portatori: è un dato che appartiene all’essere cristiani.

Secondo membro: «di essi è il Regno dei cieli» (v.1; v. 8). Le beatitudini comportano la persecuzione, perché stabiliscono un altro ordine del mondo, che è quello del Regno. Possiamo leggervi in filigrana l’allusione al compito profetico della Chiesa, che è quello di essere portatrice e testimone della visione di un altro ordine, diverso da quello del mondo, che dice la verità di Dio.

vv.11-12: Nona beatitudine. Nella sua struttura formale si distingue dalle precedenti: è più dettagliata e corposa; a livello stilistico non presenta la stessa linearità ed essenzialità delle prime otto beatitudini; abbiamo la seconda persona plurale, non la terza; si descrivono gli accadimenti con tre azioni al futuro; ci sono infine degli imperativi. Si collega alle precedenti beatitudini, che costituiscono un corpo organico, con la ripresa del tema della persecuzione, che è quasi all’apice di tutto il percorso.

La persecuzione ha una causa ben specificata: «a causa di me» (v. 11). C’è una relazione profonda tra il discepolo e Gesù Messia; è questa la relazione che bisogna stabilire con Lui. A chi è perseguitato viene promessa la gioia. La situazione è paradossale: la sofferenza come motivo di gioia. Naturalmente non si tratta di autolesionismo. Si «osa» parlare di gioia, perché subito dopo viene specificato il motivo della gioia: siamo discendenti dei profeti. Cioè risultano motivo di gioia sia la promessa di Dio che la presenza di Dio, in quanto Dio si manifesta nel momento in cui i profeti e i giusti vengono perseguitati.

La ricompensa dei profeti è la presenza di Dio: la situazione di sofferenza rende presente Dio, a motivo dell’adesione a Lui. La presenza di Dio feconda la negatività che è propria della situazione di sofferenza. Dio dà all’uomo la ricompensa che cerca: colui che è perseguitato a causa di Dio, sa che Dio è con lui.

Le beatitudini portano a leggere la realtà sotto un’altra ottica, perché il Regno di Dio rovescia le categorie del mondo. Non è la situazione oggettiva vissuta che viene beatificata: la beatitudine sta nel cambio di prospettiva con cui vedo le cose. Il fondamento della gioia non è quindi lo stato delle cose che vivo, che impegnano ad un cambiamento, ma lo sguardo che mi fa cogliere la presenza del Regno di Dio. Il Regno di Dio contesta la gerarchia umana: i perdenti diventano i beneficiari della salvezza del Regno. Ecco il paradosso, che determina il capovolgimento dei criteri con cui interpretiamo la realtà. L’evangelista Matteo legge la beatitudine nell’ottica dell’agire salvifico di Dio. È legato alla presenza di Dio, in mezzo a situazioni paradossalmente contrastanti con la gioia, in cui l’uomo non vede la gioia: con la Sua presenza capovolge la situazione. Le beatitudini dicono che Dio s’impegna con i poveri, gli uomini di pace… Dio s’impegna a favore di categorie di persone che sono ai margini. Dio diventa, a fianco dei «perdenti», così come l’uomo è abituato a considerarli, il «protagonista» della storia.