Giuseppina Bakhita

Giuseppina Bakhita

Sáb, 10 Mar 18 Maestros espirituales

Nacque nel 1869 nel Sudan; raccontare di lei vuol dire richiamare migliaia di uomini, donne, bambini che in ogni parte dell’Africa sono stati schiavizzati, torturati, uccisi…Una deportazione mai finita che continua ancora oggi in maniera diversa e si espande alle frontiere o lungo le coste della penisola. Bakhita non è il suo vero nome; all’età di otto anni viene rapita e per lo spavento provato dimentica tutto il suo breve passato, anche la sua identità. I suoi rapitori per una sorta di ironia la chiamano Bakhita, che significa fortunata e con questo nome l’abbiamo conosciuta. Piccola e terribilmente spaventata è costretta a stare al passo dei suoi rapitori che camminano per giorni attraversando boschi, monti e deserti. Man mano che si attraversano villaggi e paesi la carovana s’ingrossa sempre più di nuovi schiavi. Merce umana, viene considerata… gente a cui viene negata la vita, schiacciata dal peso delle catene. Il pensiero di questi “cortei di martiri” mi lascia col fiato sospeso; il dolore di tanti innocenti s’impregna di Silenzio, il silenzio che fa vibrare di nostalgia, che fa esprimere il cuore, fa parlare i sensi. Il dolore dei bambini non lascia mai tranquilli, si ode ovunque, entra dentro le maglie di tanti torpori. Così è ancora oggi e così è per la nostra Bakhita  che strappata alle sue radici inizia il suo calvario. Lei stessa anni dopo ha la forza di raccontare: “Una mattina il padrone mi presenta a un mercante di schiavi che mi compera e mi unisce ad altri schiavi, erano tre uomini, tre donne, fra cui una fanciulla poco più grande di me. Subito ci mettemmo in viaggio per otto giorni, ci fermavamo solo qualche ora a riposare o a prendere cibo. Allora veniva tolta la catena dal collo e posta al piede a distanza di un passo dall’altro, per impedire la fuga… Finalmente sostammo al mercato degli schiavi”.

Venduta e rivenduta più volte nei mercati di El Obeid e di Kartoum la giovane conosce l’umiliazione, la violenza, le sofferenze fisiche e morali, poi finalmente nella capitale del Sudan arriva un po’ di sollievo perché viene comperata da un console italiano di nome Callisto Legnani e con questo finalmente esperimenta un barlume di umanità. Racconta ancora: “Questa volta fui davvero fortunata, perché il nuovo padrone era assai buono e prese a volermi tanto bene. La mia occupazione era di aiutare la cameriera nelle faccende domestiche, non ebbi né castighi né percosse, sicché non mi pareva vero di godere tanta pace e tranquillità”. Nella casa del Console la giovane conosce anche la serenità e la gioia; sentimenti fino allora repressi dalla crudeltà dei suoi aguzzini. Ma quanta nostalgia avrà provato nelle lunghe notti e nelle giornate di lavoro? La stessa che mi torna in mente vedendo lo sguardo di tanta gente che proprio nel Sudan muore per fame, per mancanza d’acqua, per malattia. Uno sguardo velato di malinconia per qualcosa che non c’è, manca, è distante, si perde nella memoria di un Occidente che invece s’ingrassa sempre più.

La storia di Bakhita è intrisa di dolore e di speranza; intanto nuove situazioni politiche costringono il Console a partire per l’Italia e la nostra giovane chiede e ottiene di partire con lui e un amico di famiglia, un certo Augusto Michieli. La moglie Maria Turina Michieli chiede, arrivati a Genova, di farla rimanere presso di lei e così ricomincia una nuova esperienza, questa volta a Zianigo, una frazione di Mirano Veneto. Intanto l’acquisto di un albergo a Suakin nel Mar Rosso costringono più tardi la signora Mieli a trasferirsi in quella località per aiutare il marito. Prima di partire pensa bene di affidare la figlia Mimmina e Bakhita a qualche collegio per avere un po’ d’istruzione e su consiglio dell’amministratore di famiglia, Illuminato Cecchini, le ragazzine vengono affidate alle suore Canossiane. Precedentemente il signor Cecchini aveva regalato alla giovane “moretta” un Crocifisso d’argento: “Nel darmelo, dice Bakhita,  il signor Illuminato lo baciò con devozione, poi mi spiegò che Gesù Cristo, Figlio di Dio, era morto per noi. Io non sapevo chi fosse, ma spinta da una forza misteriosa lo nascosi per paura che la signora me lo prendesse. Prima non avevo mai nascosto nulla, perché non ero attaccata a niente. Ricordo che lo guardavo di nascosto e sentivo in me una cosa che non sapevo spiegare”...